Non si può dire che Halloween sia la mia festa preferita. Anzi. Diciamo che nutro nei suoi confronti una totale, dichiarata indifferenza. Probabilmente un po’ snob, a dirla tutta.
Anche per questo l’invito di ParmaKids a riflettere sul tema della narrazione della morte ai bambini in occasione di una festa il cui significato è proprio quello di commemorare e rendere omaggio allo spirito dei defunti, mi è sembrata un’occasione da prendere al volo, anche per ricollocare questa giornata nel suo spazio corretto che ha poco a che fare con le zucche illuminate, le ragnatele e gli scheletri, ma che, al contrario, nasce con un intento estremamente serio e rispettabile.
Quindi, come si parla ai bambini della morte? E, soprattutto, se ne può parlare?
Certamente si. Si tratta di un argomento importante e delicato che merita grande attenzione e soprattutto innumerevoli distinguo, che meriterebbero pagine e pagine di approfondimento. Riassumendo il tutto in un articolo, chiedo venia in anticipo perché sarò costretta a generalizzare un materiale che si caratterizza invece per l’assoluta complessità e diversificazione.
Illuminanti studi di antropologia ci hanno insegnato che la morte di una persona cara ha rappresentato dall’inizio della storia dell’uomo un momento di fondamentale condivisione all’interno di un gruppo e un insostituibile rito di passaggio per i più piccoli che si trovavano ad assistere a tutto ciò che di concreto e di spirituale accompagna questo momento, avendo così la possibilità di fare capolino nel mondo dei grandi e partecipando ad un evento che si disvelava ai loro occhi in tutto il suo portato emotivo ma anche in tutta la sua ineluttabile naturalezza.
I bambini così potevano darsi il permesso di diventare grandi, di vivere emozioni fondamentali come il dolore, la paura, la tristezza, il rimpianto, la nostalgia, in tutta la loro potenza ma anche nel loro valore di mediazione e interazione tra individui: in questo modo al bambino era consentito di vivere le proprie emozioni nella sicurezza della condivisione.
Oggi, lo sappiamo bene, la morte non è più rispettata come momento evolutivo, ma è tenuta lontana dalla nostra quotidianità, nascosta in luoghi (anche del pensiero) resi inaccessibili ai bambini. Essa non è parte del fluire armonico dell’esistenza individuale e del gruppo di appartenenza, ma è ‘altro’, è un ostacolo su un sentiero, qualcosa di assurdamente imprevisto, spesso vissuto come ingiusto, alieno, nemico.
I maestri del thriller insegnano che, perché un evento o un soggetto siano percepiti come spaventosi, è sufficiente che siano nascosti: la non conoscenza rende tutto pauroso. Ciò che non si conosce, che sappiamo che esiste ma viene celato racchiude in sé un messaggio di incertezza che provoca ansia per l’ignoto, per ciò che è imprevedibile e quindi potenzialmente superiore alle nostre capacità di reagire e di proteggerci. Niente fa più paura di ciò che non può essere svelato, del non detto che diventa indicibile, quindi immediatamente impensabile.
Un antidoto alla paura è la condivisione, la certezza consolante di poter esprimere le proprie emozioni e di vederle rispettate e prese in carico, bonificate e rese comuni, normali, e infine restituite nella loro preziosa essenza evolutiva, nella loro forza pedagogica.
Qualche giorno fa, nel mio studio, una bambina di sei anni ha scelto in modo molto deciso, tra tanti, un puzzle complicato e molto particolare che una stupidissima dicitura sulla scatola destinava a bambini oltre i sette anni e una pedagogista ancor più stupidamente riteneva inadatto a lei (sigh!). La bimba si è letteralmente tuffata anima e corpo nella realizzazione dell’opera e, senza staccare lo sguardo da quello che stava facendo, mi ha detto, col suo meraviglioso vocabolario a cavallo tra l’italiano e la sua lingua d’origine: ‘Vedi? Questo gioco mi piace tantissimo. Perché è difficile’.
E questa è stata la prima lezione. La seconda è arrivata pochi minuti dopo, quando, a proposito di condivisione, mi ha detto: ‘Prima pensi che non ce la fai a fare qualcosa. Poi provi e vedi che ce la fai. E se non ce la fai, chiedi aiuto’.
Ecco perché quando mi dicono: ‘Se fa questo lavoro, significa che le piace molto insegnare’, l’unica risposta possibile è: ‘No. Non faccio questo lavoro perché mi piace molto insegnare. Faccio questo lavoro perché mi piace molto imparare’.
La possibilità di condividere, di chiedere ed essere ascoltati, la presenza di un adulto accudente e solido rende il bambino sicuro di sé e in grado di affrontare anche tematiche delicate come la morte e il dolore, purché si usi un linguaggio rispettoso dell’intelligenza del bambino e della sua età.
Quello dell’età è naturalmente un elemento discriminante rispetto all’approccio da scegliere, insieme a tanti altri che occorre tenere in grande considerazione, tra cui la sensibilità, il vissuto personale e il rapporto con la persona che non c’è più, le modalità e il contesto in cui l’evento è accaduto, ecc. Tuttavia, in generale, è opportuno adottare un linguaggio che unisca chiarezza e dolcezza, che riesca a comunicare la realtà senza infingimenti o in modo edulcorato e confuso, ma che sia improntato alla tenerezza e che trasmetta tutta la poesia che è insita nei momenti cruciali dell’esistenza, inclusa la morte.
In questo modo, il dialogo diventa comunicazione, scambio non solo di parole ma soprattutto di emozioni tra adulto e bambino e permette a quest’ultimo di iniziare quello che sarà un percorso più o meno lungo, ma comunque evolutivo, di riorganizzazione del proprio sé e del proprio vissuto attorno ad un evento così significativamente perturbante.
Perché questo avvenga il bambino deve avere a disposizione un tempo adatto al suo personalissimo ritmo, che è solo suo. Occorre che sia un tempo denso, ricco, in cui si scambiano significati ed emozioni vere, e tutto quello che passa viene rispettato e accudito, tenuto simbolicamente tra le mani come un cristallo prezioso e vissuto come un regalo. Non sempre occorrono tante parole: le emozioni più importanti sovente passano attraverso gli sguardi e i silenzi. Purché siano sguardi e silenzi ‘densi’, appunto.
La condivisione di un lutto o comunque la narrazione della morte a un bambino che inizia a porre delle domande offre la possibilità di dare cittadinanza e rispetto anche alle emozioni negative che spesso vengono sottovalutate o addirittura negate. Questo evidenzia la necessità della presenza di un adulto consapevole e autorevole che accompagna il bambino nella conoscenza e accoglie le sue emozioni non per banalizzarle ma con l’obiettivo di normalizzarle, di restituirne al bambino l’appropriatezza.
La comunicazione diventa allora occasione di crescita per entrambi: l’adulto si mette in gioco e condivide a sua volta le proprie emozioni, incluse quelle dolenti che si provano nell’assistere alla sofferenza del proprio bambino, mentre il bambino trova spazio per crescere insieme alle sue emozioni, di qualunque colore siano.
Tutto questo conferisce alla morte una connotazione di normalità che la sottrae alla condizione di evento spaventoso e innaturale, riducendo la presenza contaminante di ansia e paura e lasciando spazio alla percezione e alla conseguente elaborazione di emozioni come il dolore, la tristezza, la nostalgia, da cui si può riprendere il cammino per ritrovare un nuovo equilibrio: le emozioni, ancorché negative, sono terreno fertile per la crescita individuale, mentre la paura inascoltata che diventa ansia paralizza.
Dal dolore si rinasce: questo credo sia un messaggio importante da condividere con i bambini. Anche le tinte più fosche in cui ci si trova immersi talvolta sono destinate a trasformarsi, con il tempo necessario e l’aiuto di se stessi e degli altri, in colori sempre più vividi. Le ferite non spariscono ma, se sono trattate con la cura e l’attenzione che meritano, si rimarginano. Allo stesso modo, il dolore dapprima acre e spinoso, se rispettato e condiviso, diventa malinconia dolce e, talvolta, perfino sorridente.
Perché questo accada si possono offrire diverse opportunità ai bambini, sempre nel rispetto delle loro richieste e delle diverse sensibilità. Un aiuto fondamentale arriva dalla potenza del ricordo, grazie al quale possono mantenere un contatto privato e intoccabile con le persone che non hanno più a fianco attraverso un dialogo interno favorito da fotografie, oggetti speciali che possono tenere con sé, narrazioni di avvenimenti e vissuti fatti dagli adulti nelle modalità e nei contesti più adatti all’ascolto e alla condivisione.
È importante spiegare ai bambini che i legami autentici non svaniscono perché le emozioni, l’affetto, la complicità non passano necessariamente attraverso la presenza fisica, ma sono valori che la travalicano e che rimangono finché rimane il ricordo e che una parte di chi non c’è più è presente in loro grazie ai momenti condivisi, a ciò che quella persona importante ha loro insegnato e che portano con sé, ai sorrisi scambiati, alle risate e agli abbracci.
Attiene poi allo stile personale e alle rispettive modalità di elaborare il lutto o la spiegazione di un evento di così alto impatto emotivo per esempio il desiderio di recarsi in luoghi che riportano alla memoria ricordi particolari, oppure di scrivere (lettere o un diario di ricordi, per esempio), di raccogliere immagini, di portare a termine qualcosa rimasta in sospeso. Qualunque esigenza espressa dai bambini in questo senso è importante sia accolta e accompagnata con leggerezza, rispetto e calore affinché l’accadimento della morte (così come la sua scoperta) sia vissuto nella sua profonda e completa umanità, senza che vi siano parole non dette o emozioni interrotte e inascoltate.
In fondo, a pensarci bene, non è quello che vorremmo poterci regalare anche noi ‘grandi’ quando qualcuno se ne va…?
22 Ottobre 2020